Maria Pellegrini (nata a Trento, 28 giugno 1967) vive a Mezzocorona ed è appassio­nata di Natura, Arte, Teatro e Poesia. 

Nell'ambito del Teatro ha frequentato cinque anni di corsi di formazione e laboratori teatrali presso la scuola di teatro “Portland” di Trento, e ha partecipato a diversi spettacoli fra cui"L'artista insistente" e "Kin - Jeh sull'amore" (2015) al Centro Teatro di Trento, "Moon trip" al Festival Pergine Spettacolo Aperto del 2017, inCome eravamo...come siamo” (2018) presso l'A.P.S.P. Cristiani de Luca di Mezzocorona e nello spettacolo Il suicida” al Al Portland di Piedicastello nel 2019; ha presentato lo Spettacolo Multimediale "Soffio di Vita" nel 2019 al Teatro di Lizzana – Rovereto e “La Natura è il mio tempio" nel 2020 al Teatro Zandonai di Rovereto, compare come attrice in “Storia di un buon soldato” per il Museo Storico del Trentino (2023).

Nell'ambito letterario ha frequentato fra gli altri il Corso di poesia a Villa S. Ignazio di Trento, “Mezzocorona e i suoi poeti” al Teatro San Gottardo, realizzato letture poetiche per “Aperitivo in armonia” presso l'Opificio delle Idee al Mulino dell’Oleificio Costa alla Sega di Trambileno e letture poetiche alla Casa degli Artisti di canale di Tenno nel 2018, nel 2019 ha coadiuvato e presentato il Trentino Book Festival.

Pellegrini MariaTesti di Maria Pellegrini

 

POESIE

EMPEA EN LUMIN E NO MALEDIR EL SCUR*

 

Empea en lumin e no maledir el scur

diceva la mia nonna

tendomi sulle ginocchia

accarezzando la mia guancia con la mano.

Una mano ruvida, vissuta,

carica di lavoro e di fatica,

dal tocco di una dolcezza infinita

potente nel suo portare una saggezza antica.

 

Accendi un lume e non maledire l’oscurità”

Ecco la chiave.

 

E le Donne lo sanno.

Anche nei momenti più difficili,

anche quando il sentiero sembra smarrito,

il lume testardo della speranza è sempre pronto ad essere

alimentato, ad indicare la via.

E l’oscurità, forse, è lì per ricordarcelo.

*(lingua ladina = Accendi un lume e non maledire l’oscurità)
 

LA RINASCITA

(dopo la tempesta Vaia)

 

 

La pioggia cadeva fitta da giorni,

come non mai.

E si era alzato il vento,

veloce e potente.

 

Nel bosco gli alberi si agitavano

cercando di restare aggrappati alle radici,

con tutte le loro forze.

Ma non era stato sufficiente.

 

I più piccoli tremavano,

venivano a mancare

le connessioni con i grandi alberi,

piccoli impulsi luminosi

che viaggiano attraverso le radici.

Avevano paura, molta paura.

 

Il vento soffiava sempre più forte

e, l'uno dopo l'altro, erano caduti a terra.

Sui tronchi accatastati

gocce di resina profumata,

lacrime limpide

in una giornata senza tempo.

 

Poi, all'improvviso,

un raggio di sole.

 

LA SPERANZA

 

La sofferenza mi ha presa per mano

e mi ha mostrato la sua casa.

Grande. Immensa.

 

Le stanze dense

di parole non dette,

di "grazie" mai pronunciati,

di abbracci non dati,

di sorrisi perduti,

di "scusami" inghiottiti.

 

La speranza mi ha presa per mano

e mi ha mostrato la sua casa.

Grande. Immensa.

 

Le stanze piene

di parole gentili,

di "grazie" sussurrati,

di abbracci caldi e sinceri,

di sorrisi luminosi,

di "scusami" che provengono dal cuore.

 

Ha i colori dell'arcobaleno,

il profumo dell'aria del mattino alla prima neve,

la delicatezza di un fiore appena sbocciato,

la freschezza della rugiada del mattino.

 

E il calore del sole,

che ogni giorno

sorge e tramonta per noi.

 

PROSA LETTERARIA

di Maria Pellegrini

LA TEMPESTA VAIA

 

«Cos’è successo al mio bosco!» esclamò disperata Caterina dopo aver aperto gli scuri della finestra della sua camera da letto.

Era una mattina di fine ottobre dell’anno 2018 e Caterina, che avrebbe compiuto tra poco ottant’anni, si era alzata presto, senza un preciso motivo. Era abituata così da sempre.

Durante la notte la pioggia era caduta in modo incessante e aveva sentito il vento infilarsi e fischiare tra le travi del tetto. Sembrava più forte del solito.

Abitava in una vecchia casa che era stata dei suoi bisnonni, costruita su due piani e con una lunga scala di legno esterna che conduceva alla soffitta. Era stata costruita interamente con sassi e legname, ma era molto più resistente delle case di nuova generazione. E il vento amava infilarsi nelle intercapedini e giocare con le travi, provocando lunghi fischi potenti.

Caterina amava la sua casa, amava la sua valle, la Val di Fiemme, e, soprattutto, amava il bosco.

Ma quella mattina, dopo aver aperto gli scuri della finestra della sua stanza, il suo cuore per un attimo si era fermato: una parte del bosco, del suo bosco, non c’era più!

Gli abeti rossi erano a terra: alcuni sradicati, alcuni spezzati, altri appoggiati l’uno all’altro quasi a cercare sostegno.

Le montagne davanti a lei erano irriconoscibili, quasi che, durante la notte, una grande mano diabolica si fosse divertita ad abbattere gli alberi dando grandi ceffoni alla montagna, creando qua e là delle grandi chiazze spelacchiate.

In tutta la sua vita, non aveva mai visto nulla di più spaventoso.

Iniziarono a tremarle le gambe. Si mise seduta sul letto, con lo sguardo fisso fuori e restò così per molto tempo, incredula.

Le sembrava che la montagna stesse gridando tutto il suo dolore e di poter vedere in lontananza le gocce di resina colare dagli alberi spezzati, come lacrime limpide in un giorno senza tempo.

Quante volte aveva percorso i sentieri del bosco per la raccolta della legna e delle pigne, utili per accendere il fuoco nelle fredde serate d’inverno, e alla ricerca di funghi, anche dopo che suo marito era venuto a mancare.

I suoi figli avevano insistito per installare in casa un impianto di riscaldamento alimentato a metano, ma il calore generato dalla cucina economica a legna e dalla sua stufa a olle non aveva rivali. Era un calore diverso, più accogliente, più intimo… più vero.

E poi andare nel bosco era per Caterina un vero toccasana: il profumo del muschio bagnato, della resina e della corteccia umida le davano, da sempre, un piacevole senso di pace.

Le persone talvolta l’avevano derisa, o tradita. Il bosco, mai. Era sempre pronto ad accoglierla, ad abbracciarla, senza giudizio. Nel bosco avvertiva delle connessioni diverse, più pure.

Quando era piccina, il nonno la prendeva spesso sulle sue ginocchia e, stringendo in mano la sua inseparabile pipa, le raccontava delle bellissime storie che avevano come protagonisti gli alberi, le piante e gli animali.

A Caterina piacevano le storie sui grandi abeti rossi, presenti in grandi quantità nel suo bosco. Alcuni, diceva il nonno, erano lì da più di cento anni e ne avrebbero potute raccontare di cose, se solo avessero potuto parlare.

E tra di loro, gli alberi, parlavano. Così raccontava il nonno. E diceva che gli alberi più grandi si prendevano cura degli alberi più piccoli, che per le loro dimensioni non potevano attingere sufficientemente alla luce del sole, passando loro le sostanza nutritive tramite le radici… e sempre tramite le radici trasmettevano le informazioni di pericolo.

Il nonno diceva anche che gli alberi “sentivano” quando l’accetta del boscaiolo era pronta a colpirli, e tremavano come bambini. Diceva che era necessario tagliare gli alberi, ma prima di farlo era giusto ringraziarli. Dando loro un abbraccio, ad esempio.

Caterina era cresciuta così, rispettando il bosco come fosse una creatura vivente e sentendone il respiro. Ed ora, gran parte di quel bosco era a terra.

Passarono i giorni e le settimane, e ogni volta che Caterina al mattino apriva gli scuri della finestra, sperava di ritrovare l’amico bosco e di scoprire che era stato tutto frutto di un orribile incubo. Ma non era così.

La trovarono distesa sul suo letto un venerdì mattina, con gli occhi chiusi, le mani appoggiate sul cuore e tra le dita la vecchia pipa del nonno.

La stanza profumava di resina e di corteccia umida, come dopo un temporale.

 

MADDALENA

 

Maddalena era nata nel maggio del 1907 in val di Fassa, in un piccolo gruppo di case affacciate sulle montagne ora divenute patrimonio dell’Umanità: le Dolomiti.

A quei tempi la vita era molto dura: le mucche e le galline da accudire, i campi da coltivare e il fieno da tagliare nei prati verso il Passo San Pellegrino. Ci voleva qualche ora di strada per raggiungerli a piedi e altrettante per rientrare a casa dopo il lavoro.

E poi i figli. Maddalena ne aveva dieci: cinque maschi e cinque femmine. Pochi i momenti in cui poteva sedersi e riposare, per riprendere fiato.

Talvolta, dopo aver accudito le mucche nella stalla, si sedeva sullo sgabello per la mungitura e si tratteneva per un tempo sufficiente ad assaporare il silenzio.

«Almeno le mucche, con la pancia piena, stavano zitte per un po'...», mi raccontava sorridendo.

Ignazio, suo marito, possedeva quella che oggi si definirebbe “spiccata attitudine imprenditoriale” e aveva trasformato la grande casa di famiglia in una pensione per turisti. Maddalena si prendeva cura della cucina con l’imponente corpo centrale di fornelli, su cui erano sempre presenti pentole di ogni dimensione, e con le grandi vetrate che davano sul prato in cui gli ospiti si rilassavano sonnecchiando sulle sdraio o giocando a ping-pong dopo le rigeneranti passeggiate sui sentieri montani.

Era una gran donna, Maddalena, dai modi gentili, sempre pronta a dare una mano a chi ne avesse bisogno e rispettosa della privacy altrui, così si direbbe ora.

Nella fede trovava la forza di affrontare i momenti più difficili e andare avanti, fiduciosa che tutto si sarebbe risolto e che sarebbero arrivati tempi migliori.

E dimostrò tutta la sua forza d’animo il giorno in cui, in piena Seconda Guerra Mondiale, all’improvviso una squadra di soldati tedeschi irruppe nella sua casa.

Maddalena non li vide subito, ma udì alle sue spalle un forte rumore di scarponi che battevano sul pavimento di legno e in seguito scorse la canna di un fucile spuntare dallo stipite della porta. Il gruppo di soldati tedeschi era accompagnato da un interprete che in modo sbrigativo spiegò alla donna che la casa sarebbe stata requisita per farne una base operativa, la sede del Comando delle truppe in zona. Ovviamente non erano previste obiezioni. Da una donna, poi.

Maddalena non si lasciò intimorire, anche se in quel momento era lei l’unica persona adulta presente in casa. Con poche parole invitò l’interprete a seguirla fino alla stanza in cui stavano riposando i suoi bambini, febbricitanti e ricoperti di macchie rosse. Avevano il morbillo.

Sapeva, Maddalena, che i soldati non si sarebbero mai fermati nella sua casa con il rischio di contrarre la malattia infettiva. E così fu.

I soldati si allontanarono rapidamente saltando gli scalini a due a due. La casa era salva, la sua famiglia anche.

Maddalena, una volta rimboccate le coperte ai suoi figli, si lasciò scivolare sulla sedia posta accanto alla finestra, e con le mani appoggiate sul grembo rivolse il suo sguardo verso il cielo, ringraziando per il pericolo scampato. Aveva scoperto dentro di sé un coraggio e una prontezza che mai avrebbe pensato di possedere.

Mentre una lacrima le scivolava silenziosa sulla guancia, pensava che la sua famiglia era il bene più prezioso e che avrebbe dato tutta se stessa per proteggerla. Anche a costo di sacrificare la sua vita.

Al ritorno dai campi, suo marito Ignazio l’avrebbe capita con uno sguardo e le si sarebbe seduto accanto prendendole le mani tra le sue. Non ci sarebbe stato bisogno di parole.

Si dice che le donne di una stessa famiglia siano come le perle di una stessa collana, e che le esperienze vissute dall’una siano di aiuto alle altre.

Anche nei momenti più difficili, anche quando il sentiero sembra smarrito, il lume testardo della speranza è sempre pronto ad essere alimentato, ad indicare la via.

E l’oscurità, forse, è lì per ricordarcelo.